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Vera MENEGUZZO
Veronica MOLINARI

Chiara GATTI

Non ho paura del verde
02-2020
Natura e astrazione nella serie dei Giardini

Il verde è il colore più difficile. I pittori informali non lo amavano perché, come diceva il grande critico dell'arte americano Clement Greenberg «fa subito natura». E, infatti, né il suo protetto Jackson Pollock né tanto meno Marc Rothko lo usarono mai come tono dominante, relegandolo a comprimario solo in casi eccezionali per acuire semmai, in modo espressionistico, l'acidità del gesto o l'effetto acuto dei gialli. Lo spettro di un naturalismo latente aveva a suo tempo terrorizzato tutti i maestri dell'astrazione impegnati a varcare i limiti di una dimensione contingente verso esiti immateriali. Eppure, a detta di Gillo Dorfles in un suo storico testo del 1951 sugli artisti del MAC, il Movimento arte concreta, anche le soluzioni più astratte possono nascondere «la forma ameboide d'una cellula, gli aspetti di strane strutture organiche o minerali». La natura, insomma, non può essere negata. Gli autori del cosiddetto “ultimo naturalismo” italiano (o, citando Testori, “naturalismo di partecipazione”) ne fecero un punto di forza e dichiararono apertamente il debito verso gli umori del creato. Immergendosi nella terra avrebbero trovato la regola, la geometria, la sintesi. L'essenziale invisibile agli occhi. 

Proprio come loro, Carola Mazot non aveva paura del verde. Dopo la lunga stagione degli anni Sessanta e Settanta, segnata da un realismo duro e crudo – quello delle sue belle teste statuarie d'uomini feriti dall'esistenza – nei primi anni Ottanta i toni torbati di una pittura dolorosa, umanamente commossa, hanno lasciato affiorare nuovi motivi e nuove sfumature. La sua iniziale epopea degli umili, seguita dal dinamismo dei cicli dedicati ai musicisti o agli atleti colti all'apice dello slancio e della tensione, è scivolata nella serenità campestre della serie sui giardini. In modo inatteso, repentino, quasi stupefacente, Carola Mazot ha spostato il suo sguardo penetrante dai moti del corpo a quelli della natura e dei suoi palpiti. E così il verde smeraldino ha fatto irruzione sulla tela. Ha seminato prati umidi di brina, spettinato l'erba con scatti di colore lucido. S'è arrampicato sugli argini, avvolto fra i tralicci, spalmato nel sottobosco o sfrangiato nelle chiome di un albero in fiore. No, Carola Mazot non ha avuto nessuna paura del verde. Perché voleva fortissimamente che si sentisse la natura dentro la sua pittura più informale che mai. Voleva che il verde catalizzasse il sentimento della terra tanto quanto lo aveva fatto per Morlotti o Mandelli. E voleva, allo stesso tempo, poter raggiungere la sintesi estrema della forma – riducendo l'immagine a un fuscello – senza rinunciare al richiamo della foresta. Un solo gesto verde per riassumere l'indole di un microcosmo vegetale. 

Da bambina, ascoltando le lezioni quotidiane del nonno (il pittore post-impressionista veneziano Vettore Zanetti Zilla), rimase colpita da un suo suggerimento. «Mi faceva notare di quanti verdi era composta una massa d'alberi». Non stupisce che, anche nei suoi giardini più immediati, il verde muti da giochi di ombre profonde alla luce tersa che rimbalza sulle foglie. E non stupisce che, dietro all'invenzione di una natura concentrata in pochi, calcolati, germogli distesi nello spazio algido della superficie, si legga chiaro l'insegnamento di Paul Cézanne. Il maestro assoluto del paesaggio reso in geometrie perfette non temeva certo le implicazioni di un colore freddo. Al contrario, verde e azzurro avevano per lui la prerogativa di spingere l'immagine in lontananza, evocare prospettive profonde, rendere palpabili gli strati dell'atmosfera. Basti pensare alla sua icona teorica, la celebre la montagna Sainte-Victoire, il massiccio calcareo della Provenza avvolta nella sua nuvola cerulea. «Cerco di rendere la prospettiva mediante il solo colore» ripeteva. Non è un caso che Carola Mazot, pensando agli anni della sua formazione giovanile nello studio di Donato Frisia, prima ancora dell'iscrizione all'Accademia di Brera, ricordasse di aver deposto la preparazione a matita per «disegnare dipingendo». 

Nel periodo dei giardini, tale retaggio si fece sempre più necessario e istintivo. La tecnica era quella della pittura informale. Getti energetici di materia sulla tela. Sferzate elastiche, graffi rosa per le magnolie, nodi ispidi per le rose selvatiche. Ma i soggetti non si sono mai persi nella spontaneità incontrollata della mano. Dal magma selvatico spuntavano peonie e ginestre, rami di fico piegati dal vento, mazzi di ortensie molli di pioggia. «Dovevo disegnare la grande massa geometrica in cui era compresa la figura» spiegava, parlando del metodo e della composizione. Altra memorabile lezione cézanniana. La matematica e l'emozione. Senza perdere di vista i volumi, Carola procedeva allora con la velocità del tratto. In questo modo catturava il senso passeggero degli eventi rispettando gli equilibri esatti del quadro. Un gioco armonico di spazi pieni e vuoti regola, infatti, le sue pagine popolate di vita arborea. Un rigore quasi orientale oppone le linee sottili e le matasse di colore al vuoto intonso dello sfondo. L'ampio respiro del bianco e della tela fa pensare proprio all'esperienza del vuoto che pervade i magnifici e perturbanti giardini zen, dove certi elementi isolati richiamano la macchia nera di china dell’ideogramma giapponese sul bianco della tavola. 

Nella serie che incornicia un vecchio tronco scisso in due rami che si divaricano solenni verso il cielo, si ritrova un contatto ideale con i piani bilanciati delle stampe di Hiroshige. L'orizzonte è un segmento nel bianco. Il primo piano è invaso dalle radici cupe che si infittiscono nell'ombra. Il resto è luce e aria. E come Carola non aveva paura del verde, non ne ebbe neppure del vuoto. Il lavoro dei suoi anni Ottanta divenne gradualmente più rarefatto nel decennio seguente. Le masse rigogliose dei primi scorci fioriti andarono disfacendosi nell'etere fino a rimanere come particelle di colore in libertà, tracce di una natura aerea. 

Pur non essendo interessata a sondare i confini dell'astrazione – lei che era cresciuta studiando la lezione plastica di Marino Marini o di Giacomo Manzù – approdò infine a una grammatica segnica essenziale. L'estrema libertà del suo segno e della linea “errante” aveva prodotto disegni automatici, riflessi involontari dei suoi moti del cuore. Le forze dell'inconscio, le passioni più intime guidavano la suo mano oltre il giardino. Nei territori del sogno e della leggerezza. Qui, anche le rose o le magnolie non sarebbero più state la trascrizione fedele di un soggetto botanico, ma l'alibi per un viaggio oltre la contingenza, per indagare la dimensione lirica del creato e della sua bellezza silvana.